Guillaume Tell al Comunale di Bologna (c) Rocco Casaluci |
Dieci minuti di applausi e trionfo
personale per Michele Mariotti, osannatissimo dal pubblico insieme a
tutto il cast. Al Comunale di Bologna ieri sera si dava, dopo quasi
sessant'anni – mancava dal 1957, sul podio c'era Molinari Pradelli
– e per la prima volta nell'originale in lingua francese il
“Guillaume Tell” di Rossini: lavoro complesso, lunghissimo (nella
versione filologica dura quasi 5 ore, intervalli compresi),
vocalmente impegnativo e come da prassi con balletto. Ed è stata
sicuramente una rappresentazione degna di nota, sia sotto il profilo
musicale che per la proposta, a tratti decisamente ammaliante, della
regia di Graham Vick. Partiamo da qui per dire che a nostro modo di
vedere Vick ha sapientemente saputo interpretare le dinamiche di una
partitura rossiniana che tra tutte, anche per il suo essere l'ultima
e più matura sua composizione per il teatro, è la più ricca di
sfumature. Tutto ruota attorno a quattro elementi: la terra, le
radici, la casa, la patria. Il primo atto, con gli svizzeri
intenzionati – dopo le feste di nozze da toni pastorali - a
ribellarsi all'oppressore straniero, è dominato dai movimenti
potenti delle masse. Il motto è “ex terra omnia”, tutto proviene
dalla terra: gli svizzeri sono il popolo della terra, gli austriaci
oppressori coloro che la negano e la violentano. Costringono questa
specie di “elfi” a vivere in un mondo estraneo e artificiale e li
riprendono, umiliandoli, per il loro becero divertimento. Solo una
rivoluzione potrà riportare l'ordine giusto delle cose, ripristinare
i valori e il mondo naturale. Ed è quello che accadrà.
Il secondo atto è diviso in due: una
parte, intimista ed elegiaca, esalta nella semplicità della scena
luminosa di bianco i duetti amorosi Arnold/Mathilde; la seconda si
incupisce e l'artefatta teoria di cavalli finti che dominava la
scena viene simbolicamente scomposta dai ribelli in tre mucchi - uno
per ciascun cantone partecipante: Schweitz, Uri, Unterwalden- al
presagire della rivolta. Chiude il virile terzetto in cui Tell,
Arnold e Gualtiero giurano in nome degli avi di abbattere
l'oppressore. Il terzo atto, che si apre con uno dei cavalli bianchi
decapitato e la scena imbrattata di sangue, ha come acme la
famosissima scena della mela (preceduta dalla festa in cui
i sudditi vengono umiliati dai potenti, con relativo balletto). Il
quarto atto è il più intenso di tutti: si apre con Arnold che
ricorda il padre assassinato dal tiranno guardando frammenti della
sua infanzia contadina proiettati sullo schermo, segue il ritorno di
Jemmy liberato da Mathilde e il segnale dell'insurrezione dato
incendiando il tavolo a simboleggiare la casa/patria, poi la tempesta
e la rivolta proiettati sul megaschermo in controluce e l'epilogo con
Jemmy che ascende una monumentale scala rossa proiettata verso il
cielo nell'apoteosi finale.
Non si è forse mai detto abbastanza
che il vero protagonista dell'opera non è tanto il pur eponimo Tell,
pescatore-eroe artefice della vittoriosa riscossa del suo popolo,
quanto il giovane Arnold, che subisce nello svolgersi del dramma una
vera e propria metamorfosi: da trasognato amato/amante a patriota
fervente, con tutti gli annessi e connessi del caso. E lo dimostra
anche il trattamento vocale a lui riservato, curatissimo e denso di
acuti al limite. Il ruolo è arduo e nella prassi è solitamente
interpretato da tenori drammatici, mentre richiederebbe la leggerezza
e l'elegia tipica dei tenori francesi sul modello di Adolphe Nourrit,
per il quale il ruolo fu concepito (o tutt'al più per il successivo
Gilbert-Louis Duprez che plasmò ulteriormente il personaggio). Ieri
sera Arnold ha ritrovato questa aderenza filologica grazie anche alla
lettura di Michael Spyres: di lui diremo che ha buona intonazione,
gradevole timbro, arriva agli acuti ma la voce è forse un tantino
leggera e nei momenti di insieme sparisce. Buone, nel complesso, le
prove anche di tutto il cast, soprattutto Carlos Alvarez nel ruolo
del titolo, la dolce ma risoluta Mathilde di Yolanda Auyanet,
l'incisivo piccolo Jemmy di Mariangela Sicilia. Ottimo anche il coro. Splendido il
balletto del terzo atto con le coreografie di Ron Howell, che ha
magistralmente messo in scena l'abiezione della tirannide, il senso
di drammatica impotenza cui soggiace il debole vessato dal potente,
la sottrazione della dignità agli oppressi, ridotti a mere
marionette. La regia ha mostrato i punti estremi al quale può
giungere un'umanità impegnata a prevaricare, nell'esaltazione
dell'artificio al parossismo, la natura e i valori che essa
sottende. Solo una catastrofe, in senso greco di “rivolgimento”
e “ripensamento”, una “rivoluzione” appunto, può portare di
nuovo all'ordine giusto delle cose e all'equilibrio. E solo una
catastrofe (è pessimismo o prospettiva apocalittica?) può
permettere all'umanità, autoviolatasi e votata all'abiezione e alla
miseria, di ritrovare, finalmente, se stessa.
(elena percivaldi)