Musica

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sabato 21 febbraio 2015

LUTTI / Addio al grande regista Luca Ronconi

MILANO / Il regista Luca Ronconi è morto questa sera al Policlinico di Milano dove era ricoverato da alcuni giorni. Nato l'8 marzo 1933 avrebbe compiuto fra pochi giorni 82 anni.
Ronconi da tempo aveva problemi di salute e da alcuni giorni era in ospedale per complicazioni probabilmente legate al virus influenzale.

Direttore del Teatro stabile di Torino (1988-93), del Teatro stabile di Roma (1994-98) nonché direttore artistico per oltre un decennio del Piccolo Teatro di Milano, Luca Ronconi ha firmato nella sua lunga carriere regie teatrali e liriche sempre nel segno dell'innovazione. Dopo il diploma nel 1953 all'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico di Roma, negli anni Cinquanta è stato attore. Ha esordito come regista con La buona moglie di Goldoni (1963), cui seguirono I lunatici di Th. Middleton (1966), Misura per misura e Riccardo III di Shakespeare, Il candelaio di Bruno, Fedra di Seneca, e il fortunato Orlando furioso (1968; ed. telev. 1975), esempio di sintesi fra avanguardia e tradizione. Segno distintivo del suo stile, l'essenzialità della recitazione tesa fra l'astrazione e lo straniamento. Tra i suoi lavori più celebri l'Orestea di Eschilo (1972), Il pappagallo verde di Schnitzler (1978), Ignorabimus di Holz (1986), Mirra di Alfieri (1988), Strano interludio di O'Neill (1989), Gli ultimi giorni dell'umanità di Kraus (1990), Re Lear (1994). Dal 1975 (Valchiria di Wagner) è stato anche regista lirico (Orfeo e Euridice di Gluck, Fetonte di Jommelli, Lo zar Saltan di Rimskij-Korsakov; Viaggio a Reims di Rossini; L'Europa riconosciuta di Salieri; Falstaff di Verdi; Turandot di Puccini).
Nel 1977 ha avviato il Laboratorio sperimentale di Prato. Dopo le esperienze di Torino e di Roma, assunta la direzione artistica del Piccolo Teatro di Milano, ha messo in scena, tra l'altro, La vita è sogno (2000), allestimento del dramma di C. de la Barca, e Peccato che fosse puttana (2003) di J. Ford. In occasione delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 ha ideato e diretto, in collab. con W. Le Moli, il Progetto Domani, composto di cinque spettacoli che, attraverso il teatro, hanno esplorato temi universali della storia, della politica e della guerra (Troilo e Cressida; Trilogia della guerra; Lo specchio del diavolo; Il silenzio dei comunisti; Biblioetica). Del 2007 è invece il Progetto 'Odissea doppio ritorno', dittico comprendente Itaca di B. Strauss e L'antro delle ninfe da Omero a Porfirio, mentre negli anni successivi ha firmato le regie di La compagnia degli uomini (2010) di E. Bond, La modestia (2011) di R. Spregelburd, Sei personaggi in cerca d'autore (2012) di L. Pirandello, Pornografia di W. Gombrowicz (2013), Danza macabra di A. Strindberg (2014), queste ultime quattro rappresentate al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Domenica la Scala renderà omaggio al grande regista, che  dal 1974 al 2009 ha realizzato per il Piermarini ben 25 titoli d'opera, con la bendiera a mezz'asta.

Fonte: Ansa

giovedì 19 febbraio 2015

SCALA / Aida “minimal”, suggestione (quasi) kolossal

credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
Supera le polemiche la nuova produzione scaligera del capolavoro verdiano con la regia di Stein. Sul podio un grande Mehta, ma il trionfo è per l'Amneris di Anita Rachvelishvili


di Elena Percivaldi




C'era grande interesse attorno a questa Aida scaligera. E per più motivi. Primo: la polemica innescata dal regista Peter Stein con Franco Zeffirelli a proposito dell'allestimento (minimal versus kolossal) con tanto di strascico polemico sulla stampa. Secondo: l'allestimento stesso, annunciato come privo di scenografia («La scenografia la fanno i cantanti», ci ha spiegato Stein all'incontro di pochi giorni fa) e senza idee («Ho paura delle idee. Quando uno ha un’idea poi ne deve avere molte altre per correggere le incongruenze della prima»). Terzo: il podio affidato a Zubin Mehta in sostituzione del compianto Lorin Maazel inizialmente previsto. Risultato: un'Aida che data sia la personalità forte del regista berlinese sia il suo piglio combattivo, o la si apprezza o la si detesta, tertium non datur. Noi, personalmente, l'abbiamo apprezzata.
La versione proposta in questa nuova produzione dalla Scala ha ripreso parzialmente quella già messa in scena da Stein al Teatro Stanislavskij di Mosca coronando così una sorta di “work in progress” durato qualche anno. Le scene (opera di Ferdinand Wögerbauer) sono ridotte al minimo, non c'è traccia della monumentalità faraonica ma i grandi “templi d'oro” si intravvedono soltanto: noi siamo dentro le loro geometrie oppure accanto, la loro presenza è suggerita da una porta oppure da un tunnel sotterraneo.
L'attenzione dunque è tutta sulla musica, i toni sono intimistici e raccolti (del resto, la partitura è tutta un pullulare di pianissimi), i cantanti sono lasciati liberi di recitare senza schemi fissi o gesti preordinati, eccezion fatta per quelli rituali (la “postura dell'orante”, a mani alzate) richiesti in azioni specifiche. Così la scena del tempio di Vulcano (Atto I, sc. 2) è risolta con un grande altare sormontato dalla barca sacra a forma di Luna (un elemento importante della ritualità egizia diffusissimo nell'iconografia) sulla quale, nel momento topico, si cala dall'alto il disco solare di Amon-Ra. Il momento è carico di significato simbolico e fortemente suggestivo. Non altrettanto il balletto delle sacerdotesse, troppo monotono nel continuare a girare su se stesse e intorno all'altare come fossero dervisci.
Peter Stein
Il Palazzo del re dell'Atto IV, scena I è un claustrofobico corridoio sotterraneo che conduce alla sala del giudizio, suggerita da una porta, dietro la quale Radames viene giudicato per il suo tradimento mentre Amneris si dispera impotente a salvarlo. L'opera si chiude con in scena due piani sovrapposti: sotto, la camera dove Aida e Radames trovano la morte; sopra, l'altare e la grossa pietra che chiude la tomba dei due sposi. Qui Amneris si suicida (tagliandosi le vene) invocando la pace: una trovata sicuramente suggestiva, tutt'altro che gratuita (comunque sia, sarebbe “morta” anche vivendo, avendo perso il suo grande amore) e che lascia il segno. Per il resto l'Egitto sfavillante di sistri d'argento e di troni d'oro è solo citato. Anche nei costumi, bellissimi, di Nanà Cecchi a prevalere sono il simbolismo dei colori e le geometrie. La suggestione orientalistica finisce qui. E non è un male.
Per quanto riguarda la parte musicale, Mehta dirige a memoria e lo fa da par suo riuscendo a creare un'atmosfera rarefatta e magica, a tratti sognante. L'orchestra (fantastica) lo segue a meraviglia e il risultato è un'Aida di splendida e raffinatissima fattura. Sontuosi gli archi, con i suoni che si alzano pian piano a invadere il teatro con grande purezza lirica. Direzione misurata nei momenti trionfali (che si fa svelto a farsi sfuggire cadendo nel pacchiano!), sublime e intimistica nei duetti, magnifica nei concertati. In una parola: perfetta.
Discutibili, ma ci stanno, le sforbiciate alla partitura (concordate col regista) che hanno tolto di mezzo i ballabili inseriti da Verdi nella monumentale scena del trionfo per la versione parigina dell'opera che imponeva il balletto: da Stein definiti inutili dal punto di vista drammatico, hanno in effetti senso solo se si mette in scena un'Aida “alla Zeffirelli” o modello Arena di Verona. In questo contesto minimal avrebbero stonato, quindi la scelta è rispettabile e anche alla fine condivisibile.
credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
Veniamo alla parte vocale, precisando che recensiamo la seconda rappresentazione (mercoledì 18 febbraio). Grandiosa prova, al solito, del coro diretto da Bruno Casoni: ennesima dimostrazione di quanto Verdi, e Aida in particolare, “appartengano” alla Scala dalla prima all'ultima nota, in tutte le possibili sfumature.
Per quanto riguarda i solisti, Kristin Lewis parte in sordina e tale rimane per tutto il primo atto. Cresce nel tempo e pur senza entusiasmare nel complesso fornisce una prova dignitosa, anche se migliore dal punto di vista attoriale che vocale. Qualche incertezza sulla pronuncia italiana unita al poco volume nel registro grave la rendono un'Aida ancora immatura. Ma le premesse per migliorare e possedere davvero il ruolo ci sono.
La prima replica è stata la vera “prima” per Fabio Sartori, che domenica aveva dato forfait per un problema di salute ed era stato sostituito (male) da Massimiliano Pisapia. Purtroppo anche lui come Radames non ha convinto del tutto. Ci è parso vocalmente a disagio in molti luoghi della partitura. Ingolato a tratti, privo totalmente di squillo, discontinuo nel volume, per fortuna si è scaldato via via, facendo dimenticare una “Celeste Aida” cantata decisamente male che al calare del primo sipario gli è costata anche qualche buu. Ma sono défaillance con ogni probabilità dovute alle non perfette condizioni vocali visto che altrove aveva entusiasmato. Da rivedere per giudicare appieno.
Ottimo il Re di Carlo Colombara, ben tornito e nobile e dalla voce chiara e squillante. Normale l'Amonasro di George Gagnidze che pecca un po' di volume.
E adesso Anita Rachvelishvili. Beh, su di lei vogliamo esprimere il più totale apprezzamento ed entusiasmo. E' un prodotto Scala, dalla cui Accademia è uscita: al Piermarini aveva esordito come Carmen nel 2009 replicata poi l'anno dopo, e tornava qua per la prima volta come Amneris. La figlia del Faraone è, si sa, una donna innamorata, disperata, fiera, vendicativa e terribile: lei la possiede per intero, con tutte le sfumature. La sua voce è piena e rotonda come le anse del Nilo, potente da far tremare il palco. Ogni nota trasuda passione. Timbro favoloso, centri impressionanti, acuti corposi e ben piazzati, gravi profondi come la fossa delle Marianne. Infine attrice di prim'ordine. Monumentale prova, ovazione (maritatissima) da stadio, attesa da adesso in poi spasmodica per ascoltarla in un prossimo ruolo.
Il pubblico, e a ragione, non ha invece perdonato l'inascoltabile Matti Salminen, Ramfis afono, stonato e davvero imbarazzante: ha dimostrato purtroppo in maniera plastica di non riuscire più a “tenere” ruoli che richiedono un peso specifico di voce (massimo) come questo. Abbiamo sofferto per lui. Con tale e tanta carriera alle spalle, è proprio il caso di insistere e macchiarla con prove simili? 

 

giovedì 5 febbraio 2015

SCALA / Il trionfo di Poppea (e di un Barocco algido)

photo Andrea Messana-Opéra de Paris

Alla Scala in scena l'ultima opera di Monteverdi con Alessandrini sul podio.
Regia notevole e interpreti di prim'ordine. Con qualche scelta azzardata...

di Elena Percivaldi

MILANO - L'“Incoronazione di Poppea” è, si sa, un capolavoro indiscusso di un teatro in musica allora (siamo nel 1642) ancora agli albori ma, grazie al genio di Claudio Monteverdi, già perfettamente maturo in tutte le sue dinamiche musicali, drammaturgiche e sceniche. L'edizione in scena alla Scala in questi giorni non solo non ha deluso le aspettative ma ha coronato, nel migliore dei modi, un percorso iniziato nel 2009 sotto l'era Lissner in coproduzione con l'Opéra di Parigi che aveva l'ambizione di portare la trilogia Orfeo-Ulisse-Poppea in un teatro che, fino a prova contraria, è da sempre molto più aduso all'opera “opera” che non agli arzigogoli del Barocco. Ma l'operazione, grazie anche alla straordinaria bacchetta di Rinaldo Alessandrini, si è conclusa con successo e anzi farebbe suggerire di proporre con maggior frequenza al Piermarini queste incursioni nell'Antico. E non solo in quello, giocoforza, più conosciuto, provando a osare ancora di più.
In quest'opera i personaggi sono inquietanti archetipi, idee e metafore, il più delle volte doppie e ambigue. Si gioca facile con Amore, Virtù e Fortuna, ovvie incarnazioni tanto care al Barocco delle rispettive idee e valori astratti. Ma anche gli “umani” sono a loro modo archetipi. Per la loro natura fallace non possono esserlo però di una cosa sola, lo sono di almeno due: un valore e il suo contrario. Come tutti noi, non sono marmi tutti d'un pezzo ma vivono di una vasta gamma di contraddizioni. Ed è questo, crediamo, al di là della musica il segreto della grandezza dell'opera, che va ben oltre ogni rigido schematismo.
Poppea dunque è la sensualità fatta persona. Il che può essere positivo quando si ama senza nulla pretendere in cambio, ma diventa deleterio se si tramuta (ahi, la cronaca di ieri come di oggi) in mezzo di ascesa e arrampicata sociale, non importa a quale prezzo. Nerone è solo parzialmente il sanguinario tiranno che certa storiografia ci consegna (in fondo impone “solo” la morte a Seneca e ripudia Ottavia, ma ben altro negli annali gli è imputato) per essere un uomo preda di un amore che, cosa paradossale per un monarca, non è capace di governare. Ottone è il perenne innamorato che languisce al cospetto di Poppea ma, da lei respinto, non esita a trovare requie tra le braccia di una nuova fiamma Drusilla. Seneca, che pure è l'antonomasia del filosofo “morale”, è tratteggiato dai soldati con meno nobili caratteristiche: cortigiano traditore, avvoltoio rapace, “empio architetto che si fa casa sul sepolcro altrui”. E che dire di Ottavia? Incarnazione della rettitudine morale e della moglie-matrona violata, certo, ma non vuole forse vendicarsi della rivale minacciando addirittura di morte il povero Ottone se non affonderà il brando nel suo petto? L'unico personaggio tutto sommato solo positivo dell'opera è dunque Drusilla, che ama incondizionatamente Ottone al punto da prestargli gli abiti per compiere l'attentato senza destar sospetti. E poi, una volta scopertosi, e non esiterà a voler sacrificare la sua vita per salvarlo. Per fortuna Nerone, che non attendeva altro, interverrà per tramutare la loro morte in un confortevole (si fa per dire) esilio, e ripudierà finalmente la mandante del misfatto, l'ingombrante Ottavia.
Ci sono poi la nutrice e Arnalta, personaggi popolari e di registro “comico”, e i ruoli di contorno che servono a spezzare la tensione e a imbastire piacevoli intermezzi secondo l'uso del tempo.
Chiude quest'opera in cui spietatezza, arrivismo, falsità e ingiustizia la fan da padroni un magnifico duetto d'amore (discusso e da molti ormai ritenuto spurio) che rappresenta il trionfo di Poppea, ora imperatrice e libera di darsi a Nerone alla luce del sole.
Dal punto di vista musicale l'Incoronazione è sicuramente un lavoro molto problematico per via della mancanza e contraddittorietà del materiale scritto. Esistono, come si sa, due versioni (la prima di Venezia e una seconda di Napoli), a loro volta rimaneggiate varie volte anche da altri autori. Alessandrini ha scelto di attingere per la versione scaligera ad entrambe le partiture, scegliendo nei singoli numeri di volta in volta tra le due quella che a suo giudizio era la più efficace. L'orchestra in buca è molto contenuta ed equilibrata. Riesce ad amalgamare il suono e a risolvere – forse a volte in maniera discutibile, ma per lo meno ci prova – le tante difficoltà dovute all'incompiutezza dell'orchestrazione. Ma forse un organico così ridotto, quasi da camera, per un teatro come il Piermarini comporta un'eccessiva dispersione del suono.
Dicevamo dell'archetipicità dei personaggi. La scelta della regia, bellissima, di Bob Wilson, corre tutta in questo senso. Tutti, nessuno escluso, si comportano come marionette guidate da fili invisibili, si muovono a scatti, indossano (riprodotte da un trucco pesante) le maschere tipiche del teatro classico, la loro mimica è sempre ipersemplificata, ora eccessiva ora bamboleggiante. Il motivo è semplice: rappresentano pulsioni eterne e senza tempo.
Non vi è nulla dei soliti orpelli barocchi, non trionfi di marmi né broccati preziosi, parrucche e abiti ingombranti. L'epoca nei costumi (di Jacques Reynaud) è richiamata da linee sobrie ed eleganti, per le donne abiti lunghi e gorgiere sollevate sul dietro, per gli uomini finte armature laccate. Le scene sono essenziali, illuminate con luci ora fredde ora calde a seconda delle situazioni, ma comunque in toni per lo più neutri a sottolineare la sempiterna validità del Tutto.
photo Andrea Messana-Opéra de Paris
Passiamo alle voci per dire che il cast è stato quasi tutto all'altezza della situazione. Iniziamo dalle note più positive. Il ruolo di Nerone dovrebbe essere, da prassi, ricoperto da soprano mentre Alessandrini ha scelto Leonardo Cortellazzi, che ha tratteggiato un imperatore brillante come la sua armatura. Voce adamantina, squillante, forse un po' leggera. Ma molto piacevole a sentirsi. La Poppea di Miah Persson (che ha impersonato anche La Fortuna) è stata una fantastica, sensuale e conturbante concubina ottimamente cantata dall'inizio alla fine. Peccato solo che la regia così “fissa” abbia penalizzato (ma i motivi li abbiamo detti) il debordante erotismo che dovrebbe sprigionare dalla coppia, ad esempio, nel meraviglioso duetto del primo atto (“Signor deh, non partire”). Ottima anche la prova di Sara Mingardo, Ottone perfetto sia vocalmente che scenicamente, superlativa Monica Bacelli come Ottavia dolente ma determinata, splendida voce e prescenza altrettanto icastica. Abbiamo apprezzato moltissimo anche la Drusilla di Maria Celeng, dotata di un piacevolissimo timbro e di una bella agilità. Qualche perplessità ha destato invece Andrea Concetti che ci è parso vocalmente un po' debole per un ruolo “pesante” e profondo (in tutti i sensi) come quello di Seneca. Così come qualche interrogativo lo ha suscitato anche la scelta del registro vocale di Arnalta. Sia lei che la Nutrice infatti di solito sono ruoli maschili en travesti, ma qui si è scelto di mantenere la prassi solo per la Nutrice (un grottesco e divertente Giuseppe De Vittorio, che ci è piaciuto molto) mentre Arnalta è stata interpretata (a dire il vero senza particolari slanci) da Adriana Di Paola. Perché?
Chiudiamo con una piccola nota su Mirko Guadagnini, che è un tenore che personalmente apprezziamo tantissimo e non solo nel repertorio barocco: lo ricordiamo ad esempio memorabile nell'Orfeo a Cremona del 2003 (allora fu Apollo sotto la direzione di Dantone), ma anche lo scorso anno alla Verdi nel monumentale War Requiem di Britten. Fu Nerone, per dire,  a Lione con Christie sul podio. Ci è dispiaciuto vedergli affidato “solo” il ruolo di Valletto (e primo console, vabbè), che peraltro sarebbe da soprano, quindi con lui non c'entra assolutamente nulla. Peccato davvero.

lunedì 2 febbraio 2015

NOVARA / La Dessì nel nuovo allestimento di Turandot prodotto dalla Fondazione Teatro Coccia

Novara, 27 gennaio 2015. Torna l’opera lirica al Teatro Coccia di Novara, dopo La Traviata e Les Contes d’Hoffmann, venerdì 6 febbraio alle 20.30 e domenica 8 febbraio alle 16 va in scena Turandot di Giacomo Puccini in un nuovo allestimento prodotto dalla Fondazione Teatro Coccia.
Daniela Dessì
Protagonista dell’opera pucciniana, nei panni della principessa Turandot, Daniela Dessì, oggi considerata uno dei soprani più importanti al mondo, interprete di riferimento per il repertorio verdiano, pucciniano e verista. La sua bellissima voce, la tecnica impeccabile e uno straordinario istinto drammatico le hanno permesso di spaziare da Monteverdi a Prokof’ev e di affrontare più di settanta titoli operistici, come testimonia la motivazione di “soprano assoluto” con cui le è stato conferito il Premio Belcanto “Celletti” nel 2011. Richiesta nei teatri e nei festival più importanti del mondo, ha collaborato con i più autorevoli direttori d’orchestra e con i più importanti registi. Tra i suoi maggiori recenti successi vanno menzionati Tosca a Firenze, dove ha eseguito il bis di “Vissi d’arte”, a 52 anni di distanza dall’ultimo bis di un’aria concesso da Renata Tebaldi, Madama Butterfly a Roma e a Palermo, Adriana Lecouvreur a Barcellona, Tosca ad Atene e a Berlino, i concerti a San Paolo in Brasile in duo con Fabio Armiliato, il recital Novecento Italiano Rarities al Festival dei Due Mondi di Spoleto e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, La forza del destino a Liegi, Aida all’Arena di Verona e La bohème con la regia di Ettore Scola al Festival Puccini di Torre del Lago.
La regia dell’opera è di Mercedes Martini. Diplomata alla scuola del Piccolo Teatro di Milano diretta da Giorgio Strehler, recita in “I giganti della montagna”, “La grande magia”, “Arlecchino servitore di due padroni”. Ha continuato la sua formazione frequentando seminari con Bruce Myers, Carolyn Carlson, Carlos Alsìna e Tatiana Olear del Teatro d’Arte di Mosca. Ha collaborato con molti registi, fra cui Elio De Capitani, Ferdinando Bruni, Francesco Saponaro, Pierpaolo Sepe, Gigi dall’Aglio, Armando Pugliese.
Mercedes Martini
Sul podio, a dirigere l’Orchestra Filarmonica Pucciniana, il Maestro Matteo Beltrami, che nei suoi diciassette anni di carriera ha debuttato in oltre trenta titoli operistici spaziando dal barocco a prime assolute di opere contemporanee dirigendo nella maggior parte dei teatri italiani: San Carlo di Napoli, Massimo di Palermo, Bellini di Catania, Carlo Felice di Genova, Filarmonico di Verona, La Fenice di Venezia, Verdi di Trieste, Coccia di Novara, Verdi di Pisa, Giglio di Lucca, Goldoni di Livorno, Festival Verdi di Parma, Politeama Greco di Lecce, Della Fortuna di Fano, Pergolesi di Jesi, De Carolis di Sassari, Dal Verme di Milano, Festival Puccini di Torre del Lago, tra gli altri.
Nel ruolo di Calaf, il tenore Walter Fraccaro, Liù, la giovane schiava, il soprano Francesca Sassu, Ping, gran cancelliere, il baritono Bruno Praticò, Pong, gran cuciniere, il tenore Matteo Falcier, Pang, gran provveditore, il tenore Saverio Pugliese, Altoum, Imperatore padre di Turandot, il tenore Nicola Pisaniello, Timur, Re tartaro spodestato, è il basso Elia Todisco, il Mandarino è il baritono Daniele Cusari e il Principe di Persia il tenoreVladimir Reutov.
Scene e luci sono di Angelo Linzalata, i costumi di Elena Bianchini.
Il costo dei biglietti per lo spettacolo varia dai 30,00 ai 60,00 euro, a seconda del settore del teatro prescelto. E’ possibile acquistare i biglietti presso la biglietteria del teatro (Via Rosselli, 47 a Novara – telefono 0321233201) aperta da martedì a sabato dalle 10.30 alle 18.30, oppure online sul sito www.fondazioneteatrococcia.it.

Fonte. Comunicato stampa

domenica 1 febbraio 2015

PARIGI / Si è spento Ciccolini, il "signore del pianoforte"

PARIGI - Si è spento nella sua casa di Parigi all’età di 89 anni Aldo Ciccolini,  uno dei giganti del pianismo italiano. Tra i monumenti italiani della storia del pianoforte, Ciccolini occupa un posto del tutto particolare: elegante, schivo e relativamente poco noto al grande pubblico, è figura leggendaria per gli appassionati, in particolare in Italia e in Francia, e testimone di una temperie culturale europea tra le cui componenti emergono la scuola napoletana, quella francese e il mondo di Busoni e di Liszt. Ammesso giovanissimo al Conservatorio di San Pietro a Majella, retto allora da Cilea, studiò composizione con Achille Longo e pianoforte con Paolo Denza (allievo di Busoni); si trasferì poi a Parigi in seguito alla vittoria al Grand prix international Long-Thibaud nel 1949. Tra i suoi insegnanti nella capitale francese anche Marguerite Long e Alfred Cortot. Ciccolini si impone tra le maggiori figure del pianismo internazionale; lo dirigono tra gli altri Wilhelm Furtwängler, Ernst Ansermet, Dmitri Mitropoulos, Charles Munch, Pierre Monteux, André Cluytens e Carlo Maria Giulini. Celebre il suo sodalizio artistico con Elisabeth Schwarzkopf. Il suo repertorio comprende i capisaldi della letteratura pianistica ma testimonia anche di una inesauribile curiosità musicale: accanto a Scarlatti, Mozart, Beethoven, Schubert, Chopin - e naturalmente Debussy e Ravel - nei programmi dei suoi concerti figurano Clementi, Castelnuovo-Tedesco, pagine poco frequentate di Liszt, Déodat de Séverac, Satie (di cui ha realizzato la prima integrale discografica), Rossini. Ha realizzato più di 100 registrazioni per EMI.   
Il Maestro Ciccolini avrebbe dovuto tornare a suonare al Teatro alla Scala - dove aveva debuttato nel 1955 con il Concerto n°1 di Čajkovskij diretto da Lorin Maazel e che  lo ha ricordato con un comunicato -   lo scorso 21 gennaio in un concerto straordinario a favore di Fondazione Rava Onlus, che avrebbe segnato i 60 anni dal suo debutto scaligero; glielo ha impedito il progressivo peggioramento delle condizioni di salute.