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Simon Boccanegra alla Scala di Milano |
di Elena Percivaldi
MILANO - Il “Simon Boccanegra”
è opera complessa e poco conosciuta del repertorio verdiano, in cui
è rientrata solo dopo una “riscoperta” operata negli anni Trenta
del secolo scorso. La prima, alla Fenice di Venezia nel 1857, fece
fiasco soprattutto a causa della vicenda troppo intricata, cui non
riuscì a dare ordine l'arzigogolato libretto di Francesco Maria
Piave. Rimasta nel cassetto dell'editore Ricordi per anni, l'opera fu
poi rimaneggiata (sostanzialmente riscritta) da Verdi per la Scala
dove andò in scena con discreto successo nel 1881. Ma si tratta di
un lavoro molto diverso. Ventiquattro anni erano passati dalla prima
alla seconda versione (curiosamente venticinque sono quelli, nella
vicenda, tra il prologo e l'azione): un quarto di secolo in cui Verdi
aveva meditato sui drammi umani, composto un lavoro cupo come “Don
Carlo” e iniziato il sodalizio con Arrigo Boito (cui dovrà i toni
mefistofelici, nel “Simon”, di Paolo). Aveva inoltre visto
compiersi l'unità d'Italia, esprimendo solo pochi anni dopo, il 16
giugno 1867, in un'accorata lettera al nobile mantovano Opprandino
Arrivabene (che con lui era in Parlamento) forti critiche e grande
disillusione: «Cosa fanno i nostri uomini di Stato? Coglionerie
sopra coglionerie! (…) Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati.
Ma dove sono le ricchezze d’una volta?».
Il clima in cui viene
rivisto il “Simon Boccanegra” è questo. Al dramma umano del
protagonista (la donna amata che muore e la figlia, perduta e
ritrovata dopo tanti anni ma amante del nemico) si unisce quello
pubblico: gli odi tra Genova e Venezia, il tentativo di scongiurare
la guerra in nome della patria comune, le congiure e i tradimenti e
la morte finale, dove la speranza è consegnata alla
riappacificazione tra vecchi e nuovi nemici, con la tiara dogale
consegnata al genero, flebile speranza per un futuro meno cupo.
Alla Scala di Milano il
dramma verdiano è ritornato con la stessa produzione (con la
Staatsoper di Berlino) che debuttò nel 2010 con Placido Domingo nel
ruolo del titolo. Si ascolterà di nuovo Domingo, reduce peraltro da
una non certo brillante prova come Conte di Luna nel “Trovatore”
a Salisburgo, nella seconda parte delle recite: si divide infatti
con Leo Nucci le rappresentazioni e parimenti sul podio si alternano
Stefano Ranzani e Daniel Barenboim. Noi abbiamo visto, il 2 novembre,
la versione Ranzani-Nucci e su questa commentiamo.
Cominciamo dalla regia di
Federico Tiezzi per dire che ci è parsa convincente e suggestiva,
così come le scene di Pier Paolo
Bisleri, scarne e cupe e quindi in tono con un dramma in cui il
pessimismo aleggia dalla prima nota al finale e riveste accenti
inesorabilmente cosmici. Molte le citazioni, dai pittori
Pre-Raffaelliti (Dante Gabriele Rossetti, Burne-Jones, Millais) al
“Buon Governo” del Lorenzetti, dal simbolismo di Puvis de
Chavannes al romanticismo tedesco. E a questo proposito perfetta ci è
parsa la collocazione, nella sala ducale proprio sopra il trono
dell'algido "Naufragio della speranza", alias "Il mare
di ghiaccio", di Caspar David Friedrich: epigrafe (anzi,
epitaffio funebre) alla cattiva politica, ridotta a un guazzabugio
di odi e rivalità familiari e ataviche che non può non risolversi
nel dramma (in questo caso la morte dell'idealista Simone), prima
della catarsi finale.
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Leon Nucci (Simon Boccanegra) |
La
grande magnificenza della Genova dei dogi non c'è. Il Palazzo ducale
è una sorta di luogo immaginario, a farne intuire la presenza è
solo l'architettura gotica delle sedute dei membri del consiglio e
del trono: più che circostanziare in un tempo e in un luogo ben
preciso, la Genova del Trecento, il regista sembra voler puntare su
un archetipo – l'idea del potere, e le brame e le passioni che
inevitabilmente lo circondano - che è lo stesso e si perpetua e di
declina sempre e ovunque, con lievi varianti, ma allo stesso modo.
Particolarmente
riuscita ci è sembrata la prima scena dell'Atto primo, il cui denso
simbolismo è però molto chiaro e pregnante: tre cipressi, radici
in vista, sono calati lentamente dal cielo fino a terra mentre Simone
e Maria/Amelia scoprono il loro legame familiare di padre e figlia.
L'albero della vita, con tutto il suo portato metaforico, torna a
radicarsi sulla terra proprio nel momento dell'agnizione e la
famiglia ritrova la sua unità. L'equilibrio dopo tanti anni
ritrovato è però, lo si vedrà subito dopo, solo una effimera
chimera. Sull sfondo aleggia, elemento catartico e salvifico,
presente in dense pennellate scure che ne evocano la procella, il
mare, da cui Simone che è corsaro proviene e al quale alla fine,
annaspando in cerca di ristoro dall'oscuro veleno che lo sta
consumando, si rivolge inutilmente.
I
costumi di Giovanna Buzzi sono magnifici. Quello di Simone pare
ricalcato sul celeberrimo ritratto del doge (di Venezia però)
Leonardo Loredan, opera del Giambellino, quelli di Maria/Amelia
evocano le eteree e sensuali donzelle preraffaellite, il coro finale
in abiti ottocenteschi riporta la vicenda, nel compiersi del dramma,
ai tempi di Verdi e al clima politico degli anni risorgimentali e
immediatamente seguenti l'unità, con annessa disillusione di cui
sopra.
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Giovanni Bellini, Ritratto del doge Leonardo Loredan (1501) |
Spunti su cui meditare anche in questi giorni.
Passiamo ora alla parte
musicale. Di grande classe e impressionante impatto la performance di
Leo Nucci. A 72 anni giganteggia sulla scena e fa “suo”, nel
modo più completo e perfetto, Simone. La voce (che pure non può per
motivi anagrafici essere squillante come una volta) tiene ancora
benissimo con un livello di volume più che buono. Il doge è dipinto
rispettando tutte le nuances prescritte da Verdi. Si esalta nei
momenti più lirici (duetti con Amelia) e risolve con piglio regale
quelli più imperiosi. Per lui trionfo e ovazione assolutamente
meritati.
Entusiasmante la
Maria/Amelia di Carmen Giannattasio, che si conferma una splendida
artista. Deliziosa la sua avvenenza, accentuata dall'aura
preraffaellita dei costumi. La voce è bella e corposa: notevole nel
registro acuto (esaltanti i momenti più propriamente lirici,
soprattutto nei duetti), mentre ci è sembrata un pochino più in
difficoltà nei passaggi al registro grave. Poco male.
Ramón Vargas ha
tratteggiato un Gabriele Adorno passionale e gagliardo ma dal punto
di vista vocale ci aspettavamo qualcosa di più. La voce sembra aver
perso un poco lo smalto di un tempo: i momenti migliori, anche nel
suo caso, sono quelli più propriamente lirici, mentre qualche
difficoltà di troppo è emersa nelle parti dove si richiede spessore
drammatico.
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Carmen Giannattasio (Maria/Amelia) |
Alexander Tsymbalyuk ha
un fisico imponente e sulla scena è un bel vedere anziché no. Il
suo Fiesco è stato convincente sul piano interpretativo, ma la
partitura richiede profondissime incursioni nel registro grave che
non abbiamo sentito se non flebilmente: troppo poco per donare
davvero al ruolo il “peso” vocale che richiede e che lo porta,
in certi passaggi, a ravvicinarsi al Commendatore mozartiano con
tutti gli annessi e connessi del caso. Rivedibile. Meglio il Paolo
Albiani di Vitaliy Bilyy, anch'egli dotato di indubbia presenza
scenica, che è stato capace di rendere, vocalmente e
interpretativamente, l'ambiguità e la doppiezza di un personaggio
dai tratti bruni e mefistofelici.
Stefano Ranzani ha
diretto la difficile partitura verdiana scegliendo tempi che
ricordano molto la edizione di Gavazzeni del 1973, che con quelle
dirette da Abbado va considerata edizione di riferimento. Il piglio è
sembrato deciso e aderente al testo (più di Barenboim che si è
ascoltato nel 2010 e prenderà il testimone nelle recite del 6, 11,
13, 16 e 19 novembre), i cui tempi sono decisamente dilatati), anche
se forse alcuni attacchi orchestrali ai momenti più lirici
andrebbero smorzati. Come sempre ottimo il coro diretto da Bruno
Casoni.