Musica

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mercoledì 17 dicembre 2014

SCALA / Fidelio in chiaro e scuro, ma sempre inno alla Libertà e alla Salvezza

Successo per il capolavoro di Beethoven che inaugura la Stagione scaligera


credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala
Di Elena Percivaldi

Un Fidelio grigio, cupo, nel tempo ma contemporaneamente fuori dal tempo. Con un'umanità abbruttita, schiantata dalla tirannide e dagli abusi del potere, che si contorce al buio nelle viscere della terra. E la cui speranza di vedere la Luce, momentaneamente concessa, viene beffardamente e subito infranta. Occorre attendere la redenzione finale, che avviene grazie a un'eroica donna. Una guerriera nel nome dell'Amore. Non staremo a scrivere l'esegesi del capolavoro di Ludwig van Beethoven, perché è già stato fatto e in ben altre sedi. Il profano può ritenere curioso che a scrivere questa apoteosi dell'amore coniugale sia stato un compositore “misogino”, e che per giunta non si è mai sposato. Ma è una curiosità dettata da un approccio superficiale da salotto tv. Perché in realtà Ludovicovan, come tutti sanno, misogino non fu affatto. Amava le belle donne, aveva molte muse, le corteggiava con discrezione e con molte di loro ebbe relazioni, e non solo platoniche. Anche il mito della sua “verginità”, fatto circolare ad arte dal suo primo biografo Schindler, era - appunto – soltanto un mito. E Fidelio è l'apoteosi di questo: della Donna come vettore di Sapienza e di Salvezza, dell'Uomo che si affranca dalle catene della schiavitù dettata dall'inettitudine e dall'ignoranza (grazie alle quali il potere sguazza, ahinoi con quanta attualità!), dell'Amore come forza che vivifica il Mondo e che si fa incarnazione dello Spirito. Tutte cose che sarebbero piaciute, e tanto, a un certo Richard Wagner, e che fanno di questa sublime opera ben più che quell'ibrido di canto sporadico inserito in mezzo a dialoghi in tedesco (Singspiel). E' uno strumento di riflessione ed elevazione. Al pari di un inno religioso. Forse persino di più. Capire e far capire questo sarebbe la prima, vera conquista da ottenere volendo riproporre oggi Fidelio agli ascoltatori, anche sedicenti esperti. E respirare una boccata di ossigeno dopo il degrado visto intorno alla Prima che ha inaugurato la Stagione della Scala nell'anno di Expo, dove vip coatti e incartapecoriti e pseudo signore bene hanno fatto una figura a dir poco agghiacciante – guardate il simpatico video di Youmedia (http://youmedia.fanpage.it/video/ab/VInMYuSwUP-7gZzA) – confondendo gli acuti di Leonore con i singulti di una pornostar tedesca, e alcuni interpreti con i protagonisti di noti Manga giapponesi. Roba da interdizione a vita (con ignominia) da qualsiasi teatro di quartiere, figuriamoci il Tempio della Lirica.
Ma lo spazio è tiranno quindi diremo brevemente dell'allestimento (si recensisce la replica del 16 dicembre) con annessi e connessi. La lettura registica fatta da Deborah Warner, pur non convincendoci del tutto per via di alcune prosaicità del tutto gratuite (Mocio vileda operativo con detersivo manovrato da Leonore/Fidelio, panni stesi ovunque, Marzelline che stira on stage scansando civettuola le avances del borgataro Jaquino) ha però nel complesso intrigato senza dissacrare a tutti i costi in nome della dittatura del Regietheatre e dei suoi plaudenti reggicoda, che infestano ormai quasi tutti i Teatri d'opera del globo (Scala compresa, vedi la sciagurata Traviata dell'opening dello scorso anno). La regista inglese, già cimentatasi nel capolavoro beethoveniano a Glyndebourne nel 2001, sceglie di mettere in scena invece di un carcere strictu sensu una fabbrica dismessa e in rovina, resa ancora più cupa dalle luci bicromatiche (chiare/scure) di Jean Kalman. Ma a ben vedere, con il suo squallore e la sua disumanità, la fabbrica dismessa è un carcere, dell'estetica e dell'anima, anche quello. Le scene e i costumi, contemporanei ma generici e comunque tutto sommato non brutti, sono di Chloe Obolensky.
Per la parte musicale, partiamo dalla decisione di Daniel Barenboim di aprire con la Leonore n. 2 e non con l'ouverture prevista da Beethoven nella versione finale dell'opera: opzione discutibile, ma che chiarisce subito che la lettura fatta dal maestro non è “neoclassica” ma “romantica”. Quindi basata sul contrasto titanico tra principi opposti (il Bene e il Male?). Dalla contrapposizione Tesi e Antitesi alla fine non emerge però una hegeliana Sintesi ma tutto è risolto in una sorta di magma primordiale. Il suono viene di conseguenza: sbuffi di potenza improvvisi, grande maestosità sinfonica, timbrica a volte (corni) sopra le righe. Quello che difetta sono le sfumature cameristiche che pure ci dovrebbero essere (non dimentichiamo che dietro all'elaborazione c'è un certo Mozart...), col risultato che l'enfasi, a volte, risulta decisamente troppa.
Veniamo agli interpreti. La perla della serata è stata Anja Kampe, autrice di una prova maiuscola. La sua vocalità imponente, la passione che trasudava da ogni sillaba e da ogni gesto l'ha resa una Leonore davvero eroica e di gran peso. Il suo personaggio ha subìto, con lei sulla scena, una vera e propria trasformazione: virago muscolare quando veste i panni di Fidelio fingendosi uomo, via via nel proseguire della trama fa emergere invece la sua autentica (e mai sopita) femminilità stemperandola in momenti di fiera nobiltà e infinità dolcezza. Ha grande fascino, la Kempe, in questo ruolo che fu a suo tempo dell'ammaliante Wilhelmine Schroeder-Devrient. E lei lo veste anche stavolta (come le oltre settanta precedenti) a meraviglia.
Alla prima del 7 dicembre Klaus Florian Vogt aveva destato molte perplessità ed era apparso dal punto di vista vocale e intepretativo decisamente sottotono. In questa replica invece è parso in migliore forma. Certo non è – ma lo si sapeva giù prima! - quell'Heldentenor che si è imposto nella prassi per questo ruolo perché ha una voce leggera e chiarissima, quasi angelica. Il suo Florestan lascia sullo sfondo i tratti più cupi, romantici e tormentati del personaggio per enfatizzarne la nobiltà e l'innocenza, violate entrambe e umiliate dalla spietata ingiustizia del potere. Interessante lettura, anche se non particolarmente originale, comunque non ci è dispiciuta.
Per quanto riguarda l'Antagonista, Don Pizzarro, Falk Struckmann ha dato come attore ottima prova di sé incarnando molto bene la malvagità assoluta (e la doppiezza) del personaggio, cui ha donato tratti davvero mefistofelici. Però vocalmente ci è parso in difficoltà e sottotono, soprattutto nell'emissione, e ha dato la sensazione più di una volta di non riuscire a “tenere”.
Ovazione per Kwangchul Youn, che ha tratteggiato un Rocco corretto dal punto di vista vocale e che drammaturgicamente è riuscito persino a rendere simpatico quello che solitamente è un capocarceriere asservito al potere e non scevro da abiezioni, quindi un pendaglio da forca. La sua “figliola” Marzelline, ovvero Mojca Erdmann, è graziosissima, con questi costumi sembra ancora più giovane di quello che è (classe 1975, ma qui le daresti vent'anni o poco più), però vocalmente è troppo leggera e flebile, negli ensemble sparisce e in certi momenti, anche da sola, praticamente non si sente. Menzione infine per il Jaquino di Florian Hoffmann, il primo prigioniero di Oreste Cosimo e il secondo prigioniero di Devis Longo, tutti corretti ma niente di più. Grande invece Peter Materi, che nel suo brevissimo cameo ha letteralmente scolpito nella roccia, con la sua vocalità poderosa e presenza scenica monumentale, un Don Fernando nobilissimo e di grande classe. Encomiabile, al solito, il coro diretto da Bruno Casoni. Chiude così ufficialmente l'era Lissner, e si apre quella Pereira. Applausi per tutti, e soprattutto per Barenboim che, travolto dalle ovazioni, da Milano non poteva davvero accomiatarsi meglio.