Trionfo per Plácido
Domingo, un Francesco Foscari monumentale nella sua fragilità umana.
Ottimo anche lo Jacopo di Meli, sul podio un Mariotti in grande
forma
DUE
FOSCARI, IL LEONE RUGGISCE ANCORA
di ELENA PERCIVALDI
(da Classicaonline)
La
ripresa dei Due Foscari di Giuseppe Verdi alla Scala è stata
annunciata con grande enfasi anche per la presenza eccezionale di Plácido
Domingo. Ma nonostante l'affollatissima conferenza stampa di lancio e il
sold out, le recensioni della “prima” sono state a dir poco
discordi, con lo stesso pubblico che ha fischiato alcuni interpreti
alternando al dissenso imbarazzanti silenzi. Non eravamo presenti alla
prima rappresentazione ma abbiamo assistito alla recita del 9 marzo,
suggellata invece da applausi scroscianti. E non possiamo che essere
d'accordo con questi ultimi.
D'accordo:
Plácido Domingo non è un baritono e non lo sarà mai. Ma il suo
accostarsi in età avanzata a complessi ruoli verdiani di tessitura
baritonale (Conte di Luna, Simon Boccanegra, Rigoletto, ora dopo Londra
di nuovo Francesco Foscari) è senza dubbio coraggioso e si giustifica
di per sé vista l'enorme passione musicale che ha questo artista
immenso, longevo come pochi e dotato di una sensibilità sopraffina. In
alcuni casi (Trovatore) il risultato è stato dubbio. Ma qui come
Francesco il grande madrileno, a 75 anni suonati, dimostra di avere
ancora molto da dire e da regalare al pubblico. Il volume vocale è
ancora ragguardevole, ma è la sua presenza scenica imponente a fare la
differenza insieme alla capacità di immedesimarsi completamente nel
dramma umano di un uomo conteso tra affetto paterno e ruolo politico. Il
suo Francesco trema, piange, soffre e resta grande e monumentale nella
sua fragilità umana, senza mai perdere neppure per un istante la dignità.
Prestazione maiuscola e applausi scroscianti per il Leone che ruggisce
ancora.
Splendida
anche la prova di Francesco Meli, che dopo qualche incertezza
iniziale ha deliziato il pubblico con la sua voce chiara, il fraseggio
impeccabile, la purezza del timbro adamantino. Per lui e il suo Jacopo
ovazione strameritata. Così come gli applausi convinti ad Anna
Pirozzi e alla sua Lucrezia Contarini hanno messo a tacere i fischi
che ingiustamente le sono stati tributati alla prima (e che si è capito
che erano preconcetti ed eterodiretti). La Pirozzi ha dimostrato di
possedere volume e agilità e ha dato al ruolo lo spessore drammatico
richiesto, confermandosi interessante voce verdiana non a caso contesa
un po' ovunque. Solido il Loredano di Andrea Concetti, buoni gli
altri ruoli: Edoardo Milletti (Barbarigo), Chiara Isotton
(Pisana), Azer Rza–Zade
(Fante) e Till von Orlowsky (Servo), questi ultimi solisti
dell’Accademia di Perfezionamento per cantanti Lirici.
Michele
Mariotti si conferma uno dei più interessanti giovani direttori in
circolazione. La sua lettura dell'opera è stata meticolosa e brillante
e ha saputo integrare con maestria le lacune drammatiche di una messa in
scena monocorde per limiti intrinseci, rivestendola di inediti colori.
Un lavoro ben riuscito grazie all'ottima performance dell'Orchestra e
del Coro.
Quanto
alla regia e alle scene, ci permettiamo di dissentire dalle pur
autorevoli stroncature che abbiamo letto in questi giorni. Alvis
Hermanis, che già apprezzammo moltissimo in occasione del Die
Soldaten di Zimmermann, ha recuperato le atmosfere veneziane
romantiche evocate da Francesco Hayez riconoscendo umilmente che non può
esistere il Verdi dei Due Foscari senza il grande pittore
lagunare (e milanese d'adozione). Le proiezioni di Ineta Sipunova
sui pannelli che salivano e scendevano durante i vari quadri
trasportavano lo spettatore in una Venezia
nebbiosa, rarefatta e sognante
e sottolineavano la solitudine dei personaggi nel loro dramma
umano che si compie in nome della ragione (cinica, e sbagliata) di
Stato. Azzeccata la trovata di ambientare la scena delle prigioni in
mezzo a tante statue diverse del Leone di San Marco: essi si
materializzavano intorno al povero Jacopo in delirio come un incubo
goyano, trasformandosi da solare e anaforico simbolo della patria amata
a tremenda, ossessiva prefigurazione onirica della prossima fine, sua e
della Repubblica stessa travolta dalla decadenza. Abbondanti ovunque le
citazioni visuali, da Carpaccio a Tintoretto,
da Giovanni a Gentile Bellini, oltre all'onnipresente e
inarrivabile Hayez. Bellissimi poi i costumi di Kristìne Jurjàne,
un tripudio lussureggiante di stoffe rinascimentali ispirate al più
puro colorismo veneto.
Abbiamo
sentito critiche urticanti, sogghigni di sufficienza, sarcasmo a go-go
sulla “regia demenziale” e la “pallosa pinacoteca” (frasi
sentite in platea!) proposta sul palco. Beh, personalmente preferiamo
mille volte una lettura estetizzante, sognante ed evocativa di questo
tipo agli eccessi inutilmente provocatori e finto dissacranti, oltre che
esteticamente deprecabili, di quel Regietheatre tanto apprezzato dagli
pseudo-intellettuali radical-chic à la page. Qualche critica si può
fare al massimo ai mimi che qua e là apparivano un po' artefatti e
meccanici (ma va sottolineato anche qui il debito nei confronti, tanto
per dire, del gondolieri del Carpaccio, che forse non è stato nemmeno
colto: un ripasso di storia dell'arte sarebbe auspicabile prima di
sentenziare a vuoto...). Ma è tutto. Dopo gli immotivati fischi della
prima, il riscatto del pubblico che ha applaudito fragorosamente è più
eloquente di qualunque alzata di sopraccigli snob.
Foto
Brescia/Amisano – Teatro alla Scala