Successo
per il capolavoro di Beethoven che inaugura la Stagione scaligera
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credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala |
Di
Elena Percivaldi
Un
Fidelio grigio, cupo, nel tempo ma contemporaneamente fuori dal
tempo. Con un'umanità abbruttita, schiantata dalla tirannide e dagli
abusi del potere, che si contorce al buio nelle viscere della terra.
E la cui speranza di vedere la Luce, momentaneamente concessa, viene
beffardamente e subito infranta. Occorre attendere la redenzione
finale, che avviene grazie a un'eroica donna. Una guerriera nel nome
dell'Amore. Non staremo a scrivere l'esegesi del capolavoro di
Ludwig van Beethoven, perché è già stato fatto e in ben altre
sedi. Il profano può ritenere curioso che a scrivere questa apoteosi
dell'amore coniugale sia stato un compositore “misogino”, e che
per giunta non si è mai sposato. Ma è una curiosità dettata da un
approccio superficiale da salotto tv. Perché in realtà
Ludovicovan, come tutti sanno, misogino non fu affatto. Amava le
belle donne, aveva molte muse, le corteggiava con discrezione e con
molte di loro ebbe relazioni, e non solo platoniche. Anche il mito
della sua “verginità”, fatto circolare ad arte dal suo primo
biografo Schindler, era - appunto – soltanto un mito. E Fidelio è
l'apoteosi di questo: della Donna come vettore di Sapienza e di
Salvezza, dell'Uomo che si affranca dalle catene della schiavitù
dettata dall'inettitudine e dall'ignoranza (grazie alle quali il
potere sguazza, ahinoi con quanta attualità!), dell'Amore come forza
che vivifica il Mondo e che si fa incarnazione dello Spirito. Tutte
cose che sarebbero piaciute, e tanto, a un certo Richard Wagner, e
che fanno di questa sublime opera ben più che quell'ibrido di canto
sporadico inserito in mezzo a dialoghi in tedesco (Singspiel).
E' uno strumento di riflessione ed elevazione. Al pari di un inno
religioso. Forse persino di più. Capire e far capire questo sarebbe
la prima, vera conquista da ottenere volendo riproporre oggi Fidelio
agli ascoltatori, anche sedicenti esperti. E respirare una boccata di
ossigeno dopo il degrado visto intorno alla Prima che ha inaugurato
la Stagione della Scala nell'anno di Expo, dove vip coatti e
incartapecoriti e pseudo signore bene hanno fatto una figura a dir
poco agghiacciante – guardate il simpatico video di Youmedia
(http://youmedia.fanpage.it/video/ab/VInMYuSwUP-7gZzA)
– confondendo gli acuti di Leonore con i singulti di una pornostar
tedesca, e alcuni interpreti con i protagonisti di noti Manga
giapponesi. Roba da interdizione a vita (con ignominia) da qualsiasi
teatro di quartiere, figuriamoci il Tempio della Lirica.
Ma
lo spazio è tiranno quindi diremo brevemente dell'allestimento (si
recensisce la replica del 16 dicembre) con annessi e connessi. La
lettura registica fatta da Deborah Warner, pur non convincendoci del
tutto per via di alcune prosaicità del tutto gratuite (Mocio vileda
operativo con detersivo manovrato da Leonore/Fidelio, panni stesi
ovunque, Marzelline che stira on stage scansando civettuola le
avances del borgataro Jaquino) ha però nel complesso intrigato senza
dissacrare a tutti i costi in nome della dittatura del Regietheatre e
dei suoi plaudenti reggicoda, che infestano ormai quasi tutti i
Teatri d'opera del globo (Scala compresa, vedi la sciagurata Traviata
dell'opening dello scorso anno). La regista inglese, già
cimentatasi nel capolavoro beethoveniano a Glyndebourne nel 2001,
sceglie di mettere in scena invece di un carcere strictu sensu una
fabbrica dismessa e in rovina, resa ancora più cupa dalle luci
bicromatiche (chiare/scure) di Jean Kalman. Ma a ben vedere, con il
suo squallore e la sua disumanità, la fabbrica dismessa è un
carcere, dell'estetica e dell'anima, anche quello. Le scene e i
costumi, contemporanei ma generici e comunque tutto sommato non
brutti, sono di Chloe Obolensky.
Per
la parte musicale, partiamo dalla decisione di Daniel Barenboim di
aprire con la Leonore n. 2 e non con l'ouverture prevista da
Beethoven nella versione finale dell'opera: opzione discutibile, ma
che chiarisce subito che la lettura fatta dal maestro non è
“neoclassica” ma “romantica”. Quindi basata sul contrasto
titanico tra principi opposti (il Bene e il Male?). Dalla
contrapposizione Tesi e Antitesi alla fine non emerge però una
hegeliana Sintesi ma tutto è risolto in una sorta di magma
primordiale. Il suono viene di conseguenza: sbuffi di potenza
improvvisi, grande maestosità sinfonica, timbrica a volte (corni)
sopra le righe. Quello che difetta sono le sfumature cameristiche che
pure ci dovrebbero essere (non dimentichiamo che dietro
all'elaborazione c'è un certo Mozart...), col risultato che
l'enfasi, a volte, risulta decisamente troppa.
Veniamo
agli interpreti. La perla della serata è stata Anja Kampe, autrice
di una prova maiuscola. La sua vocalità imponente, la passione che
trasudava da ogni sillaba e da ogni gesto l'ha resa una Leonore
davvero eroica e di gran peso. Il suo personaggio ha subìto, con lei
sulla scena, una vera e propria trasformazione: virago muscolare
quando veste i panni di Fidelio fingendosi uomo, via via nel
proseguire della trama fa emergere invece la sua autentica (e mai
sopita) femminilità stemperandola in momenti di fiera nobiltà e
infinità dolcezza. Ha grande fascino, la Kempe, in questo ruolo che
fu a suo tempo dell'ammaliante Wilhelmine Schroeder-Devrient. E lei
lo veste anche stavolta (come le oltre settanta precedenti) a
meraviglia.
Alla
prima del 7 dicembre Klaus Florian Vogt aveva destato molte
perplessità ed era apparso dal punto di vista vocale e intepretativo
decisamente sottotono. In questa replica invece è parso in migliore
forma. Certo non è – ma lo si sapeva giù prima! -
quell'Heldentenor che si è imposto nella prassi per questo ruolo
perché ha una voce leggera e chiarissima, quasi angelica. Il suo
Florestan lascia sullo sfondo i tratti più cupi, romantici e
tormentati del personaggio per enfatizzarne la nobiltà e
l'innocenza, violate entrambe e umiliate dalla spietata ingiustizia
del potere. Interessante lettura, anche se non particolarmente
originale, comunque non ci è dispiciuta.
Per
quanto riguarda l'Antagonista, Don Pizzarro, Falk Struckmann ha dato
come attore ottima prova di sé incarnando molto bene la malvagità
assoluta (e la doppiezza) del personaggio, cui ha donato tratti
davvero mefistofelici. Però vocalmente ci è parso in difficoltà e
sottotono, soprattutto nell'emissione, e ha dato la sensazione più
di una volta di non riuscire a “tenere”.
Ovazione
per Kwangchul Youn, che ha tratteggiato un Rocco corretto dal punto
di vista vocale e che drammaturgicamente è riuscito persino a
rendere simpatico quello che solitamente è un capocarceriere
asservito al potere e non scevro da abiezioni, quindi un pendaglio da
forca. La sua “figliola” Marzelline, ovvero Mojca Erdmann, è
graziosissima, con questi costumi sembra ancora più giovane di
quello che è (classe 1975, ma qui le daresti vent'anni o poco più),
però vocalmente è troppo leggera e flebile, negli ensemble sparisce
e in certi momenti, anche da sola, praticamente non si sente.
Menzione infine per il Jaquino di Florian Hoffmann, il primo
prigioniero di Oreste Cosimo e il secondo prigioniero di Devis
Longo, tutti corretti ma niente di più. Grande invece Peter Materi,
che nel suo brevissimo cameo ha letteralmente scolpito nella roccia,
con la sua vocalità poderosa e presenza scenica monumentale, un Don
Fernando nobilissimo e di grande classe. Encomiabile, al solito, il
coro diretto da Bruno Casoni. Chiude così ufficialmente l'era
Lissner, e si apre quella Pereira. Applausi per tutti, e soprattutto
per Barenboim che, travolto dalle ovazioni, da Milano non poteva
davvero accomiatarsi meglio.