L’Amadigi
di Gaula
di Händel, ovvero il trionfo dell’Amore
di
Elena Percivaldi*
Scritto in occasione della rappresentazione milanese
(Piccolo Teatro Studio, 29 marzo 2016)
L’Amadigi
di Gaula (HWV 11) di
Georg Friedrich Händel andava in scena per la prima volta a Londra,
nel King’s Theatre on Haymarket, il 25 maggio del 1715. A tre
secoli esatti di distanza ecco dunque l’occasione, qui a Milano,
per proporre in prima assoluta cittadina un titolo che in Italia ha
avuto ben poche rappresentazioni pubbliche: si ricordano solo quelle
dirette da Rinaldo Alessandrini nel 2002 al Teatro S. Carlo di Napoli
(con 5 repliche: e si trattava della prima messa in scena italiana) e
nel 2004, in forma di concerto e data unica, al Teatro Olimpico di
Roma (prima assoluta nella capitale). Anche discograficamente Amadigi
si trova in forma completa in due sole registrazioni: quella
realizzata da Marc Minkowski con Les Musiciens du Louvre nel 1991 per
Erato (solisti Nathalie Stutzmann, Bernarda Fink, Eiddwhen Harrhy,
Jennifer Smith) e più volte ristampata anche in raccolte handeliane,
e quella datata 2008 uscita per Ambroisie (Naive) di Eduardo Lòpez
Banzo con Al Ayre Espanol (con Maria Riccarda Wesseling, Elena de la
Merced, Sharon Rostorf-Zamir, Jordi Domènech). Per il resto, solo
qualche aria appare in varie antologie.
Questa
“latitanza” è un vero peccato perché l’opera del grande
compositore sassone si presenta come l’apoteosi, potremmo dire, del
teatro barocco sia per la sua spettacolarità sia per la declinazione
della poetica degli affetti. Esso è di certo un prodigio musicale,
con il suo profluvio di melodie magnifiche, le arie sontuose
intervallate da intensi recitativi. Ma è anche un capolavoro di
messa in scena in cui le invenzioni - il giardino incantato con la
fontana sgorgante, la coltre di fiamme, il crollo del palazzo,
l’antro della maga colmo di demoni, i fantasmi e gli spettri, il
mago-deus ex machina
che si cala dall’alto e risolve il dramma tramite rivelazione –
sono sì colpi ad effetto atti a intrattenere e stupire al tempo
stesso, ma non fini a sé stessi bensì pienamente funzionali alla
trama e indispensabili allo svolgersi del dramma stesso.
L’Amadigi
fu la quinta opera italiana composta da Händel per Londra dopo
Rinaldo (1711),
Il Pastor Fido
(1712),
Teseo
(1712)
e Lucio
Cornelio Silla (1713),
e la seconda di argomento “magico”.
Il libretto, la cui attribuzione è stata a lungo controversa,
sembrerebbe da attribuire per qualcuno a Giacomo Rossi (+1731), già
autore delle precedenti eccetto il Teseo,
per i più però sarebbe opera del suo fedele collaboratore, il
romano Nicola Francesco Haym (1678-1729). Egli avrebbe tratto la
trama adattando il testo dell’Amadis
de Grèce scritto
tempo addietro da Antoine Houdar de la Motte (1672–1731) per
l’omonima tragédie-lyrique
in lingua francese composta da André Cardinal Destouches (1672-1749)
per l’Académie Royale de Musique e andata in scena il 26 marzo
1699. Prima di loro, lo stesso tema era stato affrontato
drammaturgicamente da Philippe Quinault (1635- 1688) per
Jean-Baptiste Lully, che lo musicò nel 1684: dallo stesso sodalizio
artistico era nato nel 1675 il Teseo
da cui appunto Haym aveva adattato l’omonima opera handeliana. Le
vicende di Amadigi sarebbero state in seguito riprese da Johann
Christian Bach (Amadis
de Gaule, 1779, su
libretto di Alphonse-Denis-Marie de Vismes du Valgay) e infine,
secoli dopo, da Jules Massenet (Amadis,
1922, postuma, su libretto di Jules Claretie).
Le
differenze tra il lavoro del De la Motte e quello di Haym sono varie,
a cominciare dal taglio del prologo e dalla riduzione degli originari
cinque atti a tre, ma riguardano anche lo scarso adattamento ai
dettami imperanti dell’opera seria. La trama è, come quasi sempre
nei poemi cavallereschi, contorta. Ecco una breve sinossi.
Atto
primo. Amadigi, prode cavaliere, e Dardano, principe di Tracia, sono
entrambi innamorati della bella Oriana, figlia del Re delle Isole
Fortunate (ossia, fuor di metafora, l’Inghilterra). Oriana sembra
prediligere Amadigi, che però è amato anche dalla maga Melissa, la
quale tenta di conquistarlo in ogni modo, non lesinando le sue arti.
Amadigi si trova così a dover fronteggiare visioni, spiriti, furie,
ma riesce sempre ad avere la meglio. Finché un giorno egli vede,
alla Fontana dell’Amore, Oriana corteggiare Dardano e, pazzo di
gelosia, sviene. Oriana se ne accorge e, presa dal dolore, tenta di
uccidersi con la sua spada: l’eroe però si sveglia e, dopo averla
rampognata per il suo tradimento, tenta a sua volta di suicidarsi.
Atto
secondo. Amadigi resiste al corteggiamento di Melissa, la quale con
un incantesimo rende a Dardano le sembianze dell’eroe in modo che
possa sedurre Oriana. La principessa, caduta nel tranello, segue
Dardano convinta che si tratti dell’amato e gli chiede perdono.
Dardano, certo di aver conquistato il cuore della donna, sfida
Amadigi a duello ma viene da questi sconfitto e ucciso. Melissa a
questo punto accusa Oriana di averle tolto l’amato e invoca
l’intervento degli spiriti.
Atto
terzo. Amadigi e Oriana, ora prigionieri della maga, decidono di
morire pur di restare uniti. Melissa, desiderosa di vendetta, non può
però uccidere l’amato e riesce solo a prolungarne l’agonia in
catene. Mentre i due amanti chiedono la grazia, Melissa invoca il
fantasma di Dardano perché la assista nella sua implacabile
vendetta: tuttavia lo spettro rivela che gli dei hanno deciso di
proteggere la coppia, pertanto i suoi tentativi di nuocer loro
saranno vani. Sconfitta e umiliata, Melissa si suicida. A questo
punto Orgando, lo zio di Oriana e mago egli stesso, discende dal
cielo e benedice l’unione dei due in un tripudio di danze
pastorali.
La
vicenda cui Haym e De la Motte si ispirarono non è certo nuova,
bensì affonda le radici in un passato ben più remoto. L’Amadigi
di Gaula (titolo
originale Amadis de
Gaula) è infatti un
poema cavalleresco composto dallo spagnolo Garci Rodríguez de
Montalvo riprendendo, a sua volta, materiale molto più antico che
già circolava per iscritto e oralmente. Fu pubblicato nel 1508 a
Saragozza, ma l’eroe eponimo, cavaliere errante, aveva già
evidentemente una lunga storia.
La
figura del paladino è infatti tipica della letteratura cavalleresca,
i cui stilemi essa incarna senza eccezione, dalla fedeltà al valore,
dalla forza al coraggio. Una figura poco storica ma molto romantica,
che venne immortalata proprio nel momento in cui tali valori,
elaborati tra il XII e il XIII secolo nelle raffinate corti del Midi
francese, erano ormai al tramonto. La sua genesi è nota. Poco dopo
il Mille l’ideale cortese aveva individuato nel cavaliere, anche
per influsso della Chiesa, il difensore dei deboli, delle vedove e
degli orfani, che agiva tenendo sempre presente il giuramento di
fedeltà espresso al suo signore, e che prevedeva il rispetto di
norme di comportamento in cui la virtù, l’onore, il coraggio, la
lealtà e la clemenza erano valori fondanti. A diffondere
quest’immagine avevano contribuito proprio i romanzi elaborati in
quegli anni, a cominciare dalle chanson
de geste e dai
romans
di Chrétien de Troyes, nelle quali le imprese dei “cavalieri
erranti” perennemente in viaggio alla ricerca di una meta
irraggiungibile, della verità e della gloria ma anche dell’amore
di una dama, occupati ora a giostrare nei tornei ora a duellare con
forze inquietanti e terribili, avrebbero assunto nomi e fama
imperitura: Eréc, Yvain, Lancelot, Perceval. Tra essi si collocò a
pieno titolo anche Amadigi.
Poi
tra Tre e Quattrocento alle mutate condizioni socio-economiche e
politiche che comportarono l’ascesa delle signorie, la guerra,
ormai combattuta solo per denaro, perse ogni risvolto ideale per
diventare un mero mezzo di sussistenza o di arricchimento. Di lì a
poco le armi da fuoco avrebbero reso obsoleto il combattimento corpo
a corpo e inefficaci le armature, che passarono da protezione a
status
symbol da torneo
o da parata. Ciò che il cavaliere aveva rappresentato per secoli –
al punto da diventare come detto, nella stessa simbologia cristiana,
il campione dei deboli e degli oppressi e il paladino della giustizia
– sopravvisse solo nella letteratura, nella memoria degli Ordini
cavallereschi e in poemi come l’Orlando
Furioso di Ludovico
Ariosto (1474-1533) e la Gerusalemme
liberata di Torquato
Tasso (1544-1595). A proposito di quest’ultimo, vale la pena notare
per inciso che il suo assai meno letterariamente dotato padre,
Bernardo (1493-1569), scrisse un poema in cento canti intitolato
proprio Amadigi
e ispirato sempre all’omonimo testo spagnolo. Dapprima steso in
endecasillabi sciolti e poi – sulla scorta della moda lanciata da
Matteo Maria Boiardo e dallo stesso Ariosto - in ottave, fu
pubblicato nel 1560. Ma nonostante l’appassionata difesa operata
dal figlio nell’Apologia
in difesa della Gerusalemme Liberata
(egli si trovava infatti a sua volta impegnato a sostenere le proprie
scelte stilistiche e lessicali contro le critiche di “barbarismo”
mossegli dagli Accademici della Crusca), il lavoro di Bernardo Tasso
era sì raffinato, ma macchinoso e prolisso: ragion per cui fu presto
dimenticato.
Tra
questi, soprattutto il capolavoro dell’Ariosto non era stato
composto certo per glorificare quel mondo cavalleresco ormai
consegnato al passato. Dalle pagine del Furioso
emerge infatti l’elemento dissacrante e ironico, tuttavia quello
del poeta è un riso fortemente ammantato di serietà e tristezza,
con ampie venature nostalgiche. Il tempo dei paladini, degli eroi
senza macchia né paura è finito, spazzato via dal materialismo e
dalle armi da fuoco, quell’«abominoso ordigno» per cui «la
militar gloria è distrutta» e «il mestier de l’arme è senza
onore». La stessa critica fu mossa anche da Miguel
de Cervantes (1547-1616) nel suo Don
Chisciotte:
egli però di tale mondo stigmatizzava soprattutto la nobiltà
spagnola che ne rappresentava l’esito degenere. Non a caso, l’unico
testo che si salva dalla furia iconoclasta del curato, che
voleva ardere tutti i testi cavallereschi della libreria dell’hidalgo
(«cagione di tanti malanni»), è proprio l’Amadigi
di Gaula,
considerato il puro capostipite del genere, definito dal barbiere
Nicolò «il
migliore di quanti di simil fatta furono composti; e perciò, come
unico nella sua specie, può meritare perdono» (Don
Chisciotte,
tomo I, capitolo 6). Il resto della rea progenie finisce sulla
piazza, combusto ingloriosamente nel fuoco.
Caduto
nella polvere nel Cinquecento, il mito
del cavaliere sarebbe risorto molto più tardi, nell’Ottocento, con
il Romanticismo, e anche in questo caso la memoria sarebbe stata
intrisa di rimpianto per un mondo definitivamente perduto.
Benché
questi riferimenti siano culturalmente indispensabili per comprendere
il contesto dell’opera, poco o nulla hanno a che vedere con
l’Amadigi di
Händel. Al compositore sassone infatti non interessava tanto la
trama del poema in sé o il tema del soprannaturale, quanto l’aspetto
emotivo dei protagonisti, il cui sentimento dominante è l’amore. I
vari personaggi sono archetipici nei loro affetti: oltre all’amore
stesso, la rabbia, il dolore, la paura, la tenerezza, lo sdegno. C’è
la maga Melissa, focosa e vendicativa, che passa in corso d’opera
dal registro sensuale a quello patetico; al suo opposto troviamo la
dolce e sensibile principessa Oriana, poi l’eroico amante-amato
Amadigi e l’infido Dardano, infine il saggio Orgando che compare
fugacemente solo alla fine e per poche battute. Su di essi Händel
riversa la sua musica vigorosa, virtuosistica e caratterizzata da
melodie ampie e splendidamente cantabili, con una creatività e
varietà sorprendenti se si considera che i ruoli furono affidati
tutti a voci acute (soprani e contralti), mentre tenori e bassi
compaiono solo nel coro finale dei pastori. Molta musica proviene,
riadattata, dal Silla,
che andò in scena una sola volta forse in forma di rappresentazione
privata per Richard Boyle, conte di Burlington, presso il quale il
compositore risiedeva. La partitura, che pure conosce momenti ora
plumbei e quasi crepuscolari («Notte amica dei riposi» di Amadigi,
«Addio» di Melissa) ora lirici e patetici («Pena tiranna» e «O
caro mio tesor»), è resa oltremodo pirotecnica grazie ad un
accurato trattamento dei fiati (nell’organico compaiono due flauti
traversi, due oboi, un fagotto e una tromba) che anticipa quello che,
di poco successivo, si ritroverà nella Water
Music (1717). Lo
spartito originale, purtroppo, non si è conservato (esistono parti
manoscritte, alcune divergenti tra loro, che sono state studiate dal
musicologo Winton Dean), ed esiste a tutt’oggi una sola edizione
del libretto originale, che risale appunto al 1715. L’edizione
critica, dopo la Deutsche Händelgesellschaft del 1874, è stata
pubblicata per la prima volta nel 1971 a cura di J. Merrill Knapp e
poi aggiornata nel 1995 (con lo stesso Dean) a seguito della
scoperta, nella Biblioteca Fürstenberg di Donaueschingen, di un
manoscritto contenente sei parti strumentali – evidentemente
concepite per una rappresentazione unicamente orchestrale - in cui la
parte vocale era sostenuta dall’oboe.
Sappiamo
comunque per certo che l’opera, nonostante la composizione
repentina, andò in scena riscuotendo un notevole successo e fu
replicata almeno diciassette volte, sempre a Londra, dal 1715 al
1717. Una delle ragioni fu la cura maniacale con cui fu curato
l’allestimento, con i suoi giochi di luce, la caverna, le dame e i
cavalieri, la torre incantata, il balletto dei pastori, il tutto in
seguito arricchito da ulteriori numeri musicali e momenti altamente
spettacolari. I primi interpreti dell’opera furono il
soprano Anastasia Robinson (Oriana, che si ammalò subito dopo la
prima e fu sostituita dalla veneziana Caterina Galerati), il celebre
castrato napoletano Nicolo Grimaldi detto Nicolini (Amadigi), il
soprano Elisabetta Pilotti-Schiavonetti (Melissa) e il contralto
Diana Vico (Dardano) mentre non si conosce il nome del soprano che
impersonò Orgando (forse la stessa Galerati). La Pilotti era
interprete ideale per la maga visto che per lei Händel aveva già
cucito su misura le parti di Armida nel Rinaldo
e
di Medea nel Teseo.
Tutti furono all’altezza della situazione, soprattutto il Nicolini,
visto che le arie erano state scritte proprio per mettere in luce le
doti interpretative di quelli che erano, senza ombra di dubbio in
almeno due casi, cantanti straordinari.
Dopo
il 1717 l’opera fu rappresentata in Germania, ad Amburgo,
diciassette volte tra il 1717 e il 1720 con il titolo di Oriana
(e con l’arrangiamento di Reinhard Keiser) per poi cadere
nell’oblio fino al 1929, quando fu riproposta a Osnabrück. Seguì
un altro lungo periodo di silenzio fino al 1968, stavolta in
Inghilterra, e precisamente nell’Abbey Hall di Abingdon, nello
Oxfordshire, cui seguirono altre timide riprese nel nord Europa.
La
“riscoperta” vera e propria avvenne solo in occasione del
tricentenario handeliano (1985) quando Roger Norrington ne propose la
prima ripresa in tempi moderni con i London Baroque Players, che andò
in onda su BBC Radio 3 il 4 aprile 1988. Da qual momento in poi,
complice un rinnovato interesse nei confronti del repertorio barocco
e handeliano in particolare, l’Amadigi
ha conosciuto varie messe in scena soprattutto in ambito
anglosassone, tedesco e nordamericano (la cui più recente risale al
2012 durante il Göttingen International Handel Festival). In Italia
però, come si è detto all’inizio, resta ancora oggi un’autentica
rarità.
Al
di là della bellezza musicale dell’Amadigi,
che vista la penuria di incisioni invita i nuovi interpreti a
stimolanti e inesplorate letture tutte da vedere e da ascoltare, vale
la pena riflettere ancora una volta sulla morale dell’opera, che
potrebbe sembrare banale ma resta pur sempre attuale. Il potere
dell’amore è superiore a tutto, non teme forze né soprannaturali
né occulte e oscure, per quanto potenti possano essere. E grazie
alla purezza di sentimenti e alla costanza, alla fine trionfa sempre.
*
storica, saggista e critico musicale
©Elena
Percivaldi, 2016. E' vietata la riproduzione anche parziale senza autorizzazione scritta. La copia e la diffusione non autorizzata è perseguibile a norma di legge.
NB. Il testo è pubblicato in versione ridotta nel programma di sala stampato in occasione della rappresentazione dell'Amadigi di Handel a Milano, Piccolo Teatro Studio (29 marzo 2016), appuntamento che fa parte del Festival Liederiadi 2016
29 marzo 2016 ore 20.30
PICCOLO TEATRO STUDIO (Via Rivoli 6 - Milano)
AMADIGI DI GAULA - Georg Friedrich Händel
Opera seria in 2 atti
Mirko Guadagnini - maestro concertatore
Oksana Lazareva - regia
INTENDE VOCI chorus et musici
PICCOLO TEATRO STUDIO (Via Rivoli 6 - Milano)
AMADIGI DI GAULA - Georg Friedrich Händel
Opera seria in 2 atti
Mirko Guadagnini - maestro concertatore
Oksana Lazareva - regia
INTENDE VOCI chorus et musici