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credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala |
Supera le polemiche la
nuova produzione scaligera del capolavoro verdiano con la regia di
Stein. Sul podio un grande Mehta, ma il trionfo è per l'Amneris
di Anita Rachvelishvili
di Elena Percivaldi
C'era grande interesse
attorno a questa Aida scaligera. E per più motivi. Primo: la
polemica innescata dal regista Peter Stein con Franco
Zeffirelli a proposito dell'allestimento (minimal versus
kolossal) con tanto di strascico polemico sulla stampa. Secondo:
l'allestimento stesso, annunciato come privo di scenografia («La
scenografia la fanno i cantanti»,
ci ha spiegato Stein all'incontro di pochi giorni fa) e senza idee
(«Ho paura delle idee.
Quando uno ha un’idea poi ne deve avere molte altre per correggere
le incongruenze della prima»).
Terzo: il podio affidato a Zubin
Mehta in sostituzione
del compianto Lorin
Maazel inizialmente
previsto. Risultato: un'Aida
che data sia la personalità forte del regista berlinese sia il suo
piglio combattivo, o la si apprezza o la si detesta, tertium
non datur. Noi,
personalmente, l'abbiamo apprezzata.
La versione proposta in
questa nuova produzione dalla Scala ha ripreso parzialmente quella
già messa in scena da Stein al Teatro Stanislavskij di Mosca
coronando così una sorta di “work in progress” durato qualche
anno. Le scene (opera di Ferdinand Wögerbauer)
sono ridotte al minimo, non c'è traccia della monumentalità
faraonica ma i grandi “templi d'oro” si intravvedono soltanto:
noi siamo dentro le loro geometrie oppure accanto, la loro presenza è
suggerita da una porta oppure da un tunnel sotterraneo.
L'attenzione dunque è
tutta sulla musica, i toni sono intimistici e raccolti (del resto, la
partitura è tutta un pullulare di pianissimi), i cantanti sono
lasciati liberi di recitare senza schemi fissi o gesti preordinati,
eccezion fatta per quelli rituali (la “postura dell'orante”, a
mani alzate) richiesti in azioni specifiche. Così la scena del
tempio di Vulcano (Atto I, sc. 2) è risolta con un grande altare
sormontato dalla barca sacra a forma di Luna (un elemento importante
della ritualità egizia diffusissimo nell'iconografia) sulla quale,
nel momento topico, si cala dall'alto il disco solare di Amon-Ra. Il
momento è carico di significato simbolico e fortemente suggestivo.
Non altrettanto il balletto delle sacerdotesse, troppo monotono nel
continuare a girare su se stesse e intorno all'altare come fossero
dervisci.
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Peter Stein |
Il Palazzo del re
dell'Atto IV, scena I è un claustrofobico corridoio sotterraneo che
conduce alla sala del giudizio, suggerita da una porta, dietro la
quale Radames viene giudicato per il suo tradimento mentre Amneris si
dispera impotente a salvarlo. L'opera si chiude con in scena due
piani sovrapposti: sotto, la camera dove Aida e Radames trovano la
morte; sopra, l'altare e la grossa pietra che chiude la tomba dei due
sposi. Qui Amneris si suicida (tagliandosi le vene) invocando la
pace: una trovata sicuramente suggestiva, tutt'altro che gratuita
(comunque sia, sarebbe “morta” anche vivendo, avendo perso il suo
grande amore) e che lascia il segno. Per il resto l'Egitto
sfavillante di sistri d'argento e di troni d'oro è solo citato.
Anche nei costumi, bellissimi, di Nanà Cecchi a prevalere
sono il simbolismo dei colori e le geometrie. La suggestione
orientalistica finisce qui. E non è un male.
Per quanto riguarda la
parte musicale, Mehta dirige a memoria e lo fa da par suo riuscendo
a creare un'atmosfera rarefatta e magica, a tratti sognante.
L'orchestra (fantastica) lo segue a meraviglia e il risultato è
un'Aida di splendida e raffinatissima fattura. Sontuosi gli archi,
con i suoni che si alzano pian piano a invadere il teatro con grande
purezza lirica. Direzione misurata nei momenti trionfali (che si fa
svelto a farsi sfuggire cadendo nel pacchiano!), sublime e
intimistica nei duetti, magnifica nei concertati. In una parola:
perfetta.
Discutibili, ma ci
stanno, le sforbiciate alla partitura (concordate col regista) che
hanno tolto di mezzo i ballabili inseriti da Verdi nella monumentale
scena del trionfo per la versione parigina dell'opera che imponeva il
balletto: da Stein definiti inutili dal punto di vista drammatico,
hanno in effetti senso solo se si mette in scena un'Aida “alla
Zeffirelli” o modello Arena di Verona. In questo contesto minimal
avrebbero stonato, quindi la scelta è rispettabile e anche alla fine
condivisibile.
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credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala |
Veniamo alla parte
vocale, precisando che recensiamo la seconda rappresentazione
(mercoledì 18 febbraio). Grandiosa prova, al solito, del coro
diretto da Bruno Casoni: ennesima dimostrazione di quanto
Verdi, e Aida in particolare, “appartengano” alla Scala
dalla prima all'ultima nota, in tutte le possibili sfumature.
Per quanto riguarda i
solisti, Kristin Lewis parte in sordina e tale rimane per
tutto il primo atto. Cresce nel tempo e pur senza entusiasmare nel
complesso fornisce una prova dignitosa, anche se migliore dal punto
di vista attoriale che vocale. Qualche incertezza sulla pronuncia
italiana unita al poco volume nel registro grave la rendono un'Aida
ancora immatura. Ma le premesse per migliorare e possedere davvero il
ruolo ci sono.
La prima replica è stata
la vera “prima” per Fabio Sartori, che domenica aveva dato
forfait per un problema di salute ed era stato sostituito (male) da
Massimiliano Pisapia. Purtroppo anche lui come Radames non ha
convinto del tutto. Ci è parso vocalmente a disagio in molti luoghi
della partitura. Ingolato a tratti, privo totalmente di squillo,
discontinuo nel volume, per fortuna si è scaldato via via, facendo
dimenticare una “Celeste Aida” cantata decisamente male che al
calare del primo sipario gli è costata anche qualche buu. Ma sono
défaillance con ogni probabilità dovute alle non perfette
condizioni vocali visto che altrove aveva entusiasmato. Da rivedere
per giudicare appieno.
Ottimo il Re di Carlo
Colombara, ben tornito e nobile e dalla voce chiara e squillante.
Normale l'Amonasro di George Gagnidze che pecca un po' di
volume.
E adesso Anita
Rachvelishvili. Beh, su di lei vogliamo esprimere il più totale
apprezzamento ed entusiasmo. E' un prodotto Scala, dalla cui
Accademia è uscita: al Piermarini aveva esordito come Carmen nel
2009 replicata poi l'anno dopo, e tornava qua per la prima volta come
Amneris. La figlia del Faraone è, si sa, una donna innamorata,
disperata, fiera, vendicativa e terribile: lei la possiede per
intero, con tutte le sfumature. La sua voce è piena e rotonda come
le anse del Nilo, potente da far tremare il palco. Ogni nota trasuda
passione. Timbro favoloso, centri impressionanti, acuti corposi e ben
piazzati, gravi profondi come la fossa delle Marianne. Infine attrice
di prim'ordine. Monumentale prova, ovazione (maritatissima) da
stadio, attesa da adesso in poi spasmodica per ascoltarla in un
prossimo ruolo.
Il pubblico, e a ragione,
non ha invece perdonato l'inascoltabile Matti Salminen, Ramfis
afono, stonato e davvero imbarazzante: ha dimostrato purtroppo in
maniera plastica di non riuscire più a “tenere” ruoli che
richiedono un peso specifico di voce (massimo) come questo. Abbiamo
sofferto per lui. Con tale e tanta carriera alle spalle, è proprio
il caso di insistere e macchiarla con prove simili?